“Separarsi bene con la pratica collaborativa”, di Armando Cecatiello

Una delle prime domande che due persone che intendono separarsi dovrebbero porsi è: “Qual è la storia che vogliamo raccontare ai nostri figli riguardo alla nostra separazione?”

Porre fine ad un legame affettivo è sempre un passo difficile, soprattutto quando a scorrere sono i titoli di coda di un matrimonio. Lo scontro tra ciò che si vuole e ciò che si sente, tra il male subito e il male che si vuole arrecare all’altro può superare i livelli di guardia, generando così una vera e propria guerra.

Ma è possibile evitare tutto ciò? Vi è una strada per far rientrare la tensione in un alveo costruttivo? Armando Cecatiello parla nel suo libro di “un modo nuovo per lasciarsi serenamente”: la pratica collaborativa.

Il libro, nato dall’esperienza professionale dell’autore in Italia, Inghilterra e Stati Uniti, esamina la risoluzione dei conflitti in ambito familiare attraverso il ricorso alla pratica collaborativa.

Armando Cecatiello, avvocato milanese nonché professionista collaborativo, spiega cos’è detto metodo, toccandone tutti gli aspetti fondamentali. La pratica collaborativa si apre con un tavolo al quale partecipano i coniugi e gli avvocati collaborativi, acquisisce forma attraverso una serie d’incontri durante i quali le parti, coadiuvate dai professionisti (tanto legali quanto, se necessario, esperti finanziari, facilitatori della comunicazione ed esperti dell’età evolutiva), prendono in mano il proprio futuro esaminando tutti gli aspetti che vorrebbero regolamentare con la loro separazione, e si chiude con la conseguente formalizzazione in tribunale o direttamente con un atto firmato dalle parti e dagli avvocati.

Punto nodale della pratica collaborativa – ben esplicitato dall’autore attraverso gli innumerevoli esempi pratici da lui vissuti in prima persona – è il fatto che al tavolo si possa parlare di tutto e cercare una soluzione senza precludersi alcuna via. Il tavolo collaborativo è l’ambito del possibile, nel quale si può discutere non solo di case, mutui e assegni di mantenimento ma anche di aspirazioni per sé e per i propri figli, progetti personali e professionali.

Il volume, dedicato principalmente a chi per la prima volta si affaccia al metodo collaborativo, non solo offre una disamina esaustiva dell’argomento, ma risulta altresì nella seconda parte del libro – parte, questa, dedicata ai formulari e ai vari modelli di accordo – un interessante spunto di riflessione per tutti coloro che già sono professionisti collaborativi e che ogni giorno hanno a che fare con coppie in procinto di separarsi. E con l’autore si può dire:

Come la vita di ognuno di noi è unica, uniche sono anche le possibili soluzioni ai conflitti in ambito familiare.

Se mi sposi non ti rovino

In rete gira una citazione, erroneamente attribuita a Charles M. Shulz, padre di Charlie Brown, che recita “La calma è la virtù di chi non è coinvolto.” Ma si può non essere coinvolti da una separazione, dalla fine del legame dal quale è nata una famiglia?

– Ti porterò via tutto! –
– Da me non avrai nulla! –
– Questa casa è mia! –
– Ci vediamo in tribunale! –

I titoli di coda di un matrimonio. In questi casi si pensa che compito dell’avvocato debba essere quello di prendersi il peso della vostra separazione, il fardello del vostro “fallimento”, caricarselo sulle spalle e andare in tribunale a combattere contro un altro legale altrettanto agguerrito, assoldato dal vostro ex partner.
Scopo della guerra: ottenere l’assegnazione della casa famigliare, un pingue assegno di mantenimento, l’affidamento dei figli…
Nel mentre voi rimarrete lì, ai bordi di quell’arena, fermi a guardare. Ma si sa, non si può mai caricare il dolore sulle spalle di qualcun altro sperando che scompaia dal nostro cuore così come non si può mai scommettere su una piena vittoria ai giochi gladiatori.

C’è quindi un modo per evitare l’incertezza delle sorti di una battaglia in un’arena e al contempo suturare le ferite, per “guarire” e ricominciare a vivere?
Oggi esistono metodi alternativi per addivenire ad una separazione o ad un divorzio, evitando inutili spargimenti di sangue nelle aule d’udienza. Tra le varie procedure si annovera la pratica collaborativa.

Potrei dirvi che la pratica collaborativa è la panacea di tutti i mali, che finalmente è arrivato un metodo che vi permetterà di narcotizzare il dolore, chiudervi in casa per un paio di settimane e uscirne poi separati (o divorziati), con rinnovata fiducia verso il mondo e l’amore.
Non è così, non posso farlo. Non sarei sincera. La pratica collaborativa non v’impedirà di soffrire, non allontanerà da voi il dolore come un potente oppiaceo; ciò che farà sarà indirizzarvi verso la risalita, rendervi protagonisti di tutte le scelte importanti che riguardano la vostra famiglia e che fino ad oggi avevate lasciato nelle mani della sorte in un’aula di giustizia.

Compito della pratica collaborativa non è anestetizzare i conflitti ma traghettare due persone che si sono amate in passato dalla dimensione della rabbia a quella del confronto, per trovare soluzioni comuni, le migliori per voi, quelle che diventeranno le fondamenta per la vostra rinascita di domani.
Facendo in modo che separazioni e divorzi non debbano più iniziare con dialoghi del tipo:

 

– Sua moglie ha un legale? –
– Non lo so. Ha dei rottweiler. –
– Non è un buon segno. –

(“Prima ti sposo, poi ti rovino”, di  Joel & Ethan Coen)

Il megafono

Eravamo quattro amici al bar. Avvocati, psicologi e psicoterapeuti accomunati dalla convinzione che, quando si tratta di famiglia e di minori, dette figure professionali non possono limitarsi a dialogare, ma devono tendere a costruire vere e proprie sinergie.

Poi siamo cresciuti. E siamo diventati un’associazione culturale. Ci siamo voluti chiamare #ancoramici (con l’hashtag rubato al linguaggio di Twitter): perché, quando ci si lascia, “ancora amici” si può restare. O almeno: ci si può provare. Ci siamo dati un brand ed un sito: www.byebyecupid.it.

Alla fine siamo cresciuti  a tal punto da avere bisogno di un contenitore ancora più ampio: un’associazione di promozione sociale. Perché le nostre non potevano restare chiacchiere da bar ma avevano bisogno di una piazza e di un megafono.

La piazza l’abbiamo occupata. Da oggi abbiamo anche il megafono. E il megafono è il Collaborativo di Alessandria. Il nome allude alla Pratica Collaborativa.

Alcuni di noi, infatti, si sono trovati a fare quello che fece il papà dei professionisti collaborativi, Stewart Webb, avvocato di Minneapolis. Dopo una causa di separazione-divorzio sono tornati dal tribunale, hanno gettato in un angolo la borsa stracolma di carte e hanno detto: “io con questi qui non voglio avere più niente a che fare!”.

“Questi qui” sono i giudici. Magari anche bravi giudici. Il punto è che, quando si tratta di dare risposte ad una crisi familiare, i tribunali non ce la fanno più. I giudici non ce la fanno più ad andare al cuore dei problemi e nelle sentenze che pronunciano spesso manca l’essenziale e resta “il troppo e l’vano”.

La sfida è quella di non delegare ad un tribunale il destino proprio e dei propri figli. Perché bisogna educare i coniugi – anche quando c’è un conflitto – a tenere a mente la lezione di Abraham Lincoln:

“Avvocato sconsiglia sempre dal far causa.
Consiglia, ogni volta che puoi, i tuoi vicini ad accordarsi.
Fai loro presente che chi sembra il vincitore spesso è il vero perdente.”

Come faremo tutto ciò? Collaborando. Collaborando tra noi e collaborando con voi. Se avrete la pazienza di leggerci.